Il testo della predicazione di oggi è inusuale, è tratto dal libro dell’Ecclesiaste, in italiano, in tedesco detto der Prediger, in ebraico il Qohélet, in una traduzione più poetica “Colui che prende la parola”. Un libro non così chiaro a volte, ma un libro “canonico”, cioè biblico, che dunque è all’interno della Bibbia che va interpretato per essere compreso pienamente.
Certamente è un libro da inserire nel filone sapienziale. Così infatti si presenta, ma fa una critica anche alla vanità della sapienza stessa. C’è chi vi vede, anzi, un confronto fra fede e sapienza e che sottolinea in particolare i limiti della sapienza umana e specie di quella che ha un’idea retributiva: “se fai bene tutto ti andrà bene”.
I versetti che leggiamo iniziano dicendo: “ho visto nella mia vanità”, cioè nella mia vita terrena. Poi i due successivi spazzano via subito l’idea retributiva, come ognuno purtroppo può constatare nella storia umana, ma a questi succedono dei versetti un po’ paradossali…
Ho visto tutto questo nei giorni della mia vanità. C’è un tale giusto che perisce per la sua giustizia, e c’è un tale empio che prolunga la sua vita con la sua malvagità.
Non essere troppo giusto, e non farti troppo saggio: perché vorresti rovinarti? Non essere troppo empio, e non essere stolto; perché dovresti morire prima del tempo? È bene che tu ti attenga fermamente a questo, e che non allontani la mano da quello; chi teme Dio infatti evita tutte queste cose.
La saggezza dà al saggio più forza che non facciano dieci capi in una città. Certo, non c’è sulla terra nessun uomo giusto che faccia il bene e non pecchi mai. (Ecclesiaste 7:15-20)
Dicevo che questo testo va inserito nella critica alla concezione retributiva dell’azione di Dio nel mondo. Ma i credenti hanno un’angoscia profonda collegata al fatto che spesso il giusto muore e invece –su questa terra– l’empio vince. È qualcosa che si osserva comunemente, ma che alla luce della concezione sapienziale retributiva antica (come anche in Giobbe se ne parla contro) costituisce uno scandalo e porta all’incredulità. Alcuni affermano che si è più increduli per questa mancanza di giustizia visibile, che per le idee della scienza o della filosofia.
La risposta a questa angoscia di ingiustizia, che segue questi versetti, appare a prima vista paradossale. E ci arriveremo alla fine. Intanto ci si dice che si dovrebbe seguire una via mediana fra giustizia e iniquità, come anche fra saggezza e follia (concepita non in senso clinico, ma come l’opposto della saggezza).
Poi, nell’ultimo versetto si relativizzano le pretese dei cosiddetti giusti, che invece devono sapere che nessuno è realmente e fino in fondo giusto. Cioè quel “non essere troppo giusto”, non è un non cercare giustizia, ma è un “non crederti di essere troppo giusto” o “non vantarti della tua pretesa giustizia”.
Non è dunque non dover perseguire la giustizia, anzi si potrebbe tentare di dire che l’Ecclesiaste punti a una ancora maggiore giustizia, ma in realtà egli ci vuole far sapere non solo che a volte non si arriva infine ad ottenere o realizzare giustizia, qualcosa che bene o male tutti sanno, ma di più allo stare attenti che magari non si sta perseguendo veramente la giustizia. “Sei sicuro che quella sia la cosa giusta da fare?” Così come per la saggezza: “sei sicuro che sia realmente saggio quello che sei giunto a pensare, magari dopo tante riflessioni?”
Da qui però non si deve andare all’opposto, non si arriva affatto ad abbandonarsi al male o al comportarsi da stolti, anzi: “perché dovresti morire prima del tempo?” Qui non si sta rientrando di nuovo in una logica retributiva, ma si constata che comportarsi da stolti spesso porta a morire, per gusto del rischio, oppure si è come già morti se si è empi.
Quindi si direbbe abbiamo da percorrere una via mediana. Non tanto la via mediana dei filosofi, che diceva che la virtù sta nel mezzo, ma una via mediana che fa riflettere criticamente sugli eccessi, sugli abbagli che puoi prendere per essere smodati, stando attenti che con l’idea di essere giusti non si finisca invece nel torto o ancora peggio.
Più in generale, vediamo a volte cristiani che prendono una serie di versetti biblici con una interpretazione che per loro è assolutamente certa e poi ne fanno un’arma contro le persone, con quel disprezzo che supera i limiti del mandato biblico, che è quello dell’amore del prossimo. Lì sì che si comportano come i lavoratori della prima ora. Come se non avessero anche loro bisogno del perdono e della grazia di Gesù Cristo. Infatti, questo testo possiamo anche usarlo per aprire all’annuncio di Gesù Cristo e alla concezione cristiana della necessità per tutti di grazia e perdono da parte del Signore in Gesù Cristo, che sarà il tema del Tempo di Passione.
limiti umani e sovranità di Dio
Ci sono quindi dei limiti dell’essere umano che vanno riconosciuti e ponderati. È qui scritto: “chi teme Dio infatti evita tutte queste cose.” Chi teme Iddio (chi crede nel Signore, chi ha fiducia in Lui e anche lo rispetta) sfugge secondo il Predicatore, l’Ecclesiaste, a questa logica estremista umana.
Riconoscere i propri limiti dinnanzi a Dio porta ad una certa serenità proprio perché evita o cerca di uscire da queste logiche. Inoltre, il rigorismo concentra le persone su sè stesse, mentre il timore di Dio ci riporta in una giusta dimensione non solo verso il Signore, ma anche verso gli altri esseri umani. Ciò apre anche alla visione democratica della comunità, della chiesa terrena, come nella tradizione protestante. L’altro e non io potrebbe aver ragione.
Ciò però non va solo contro una visione farisaica, quella che si illude si possa essere realmente ed effettivamente giusti, ma anche nega la stessa ricerca di una giustizia da parte nostra che sia assoluta. L’idea della santità è una tentazione. La ricerca della santità, intesa come una propria perfezione assoluta umana, è un peccato di superbia. Cioè, la ricerca di Dio e della salvezza in Gesù Cristo è buona, ma non quella di una nostra pretesa perfezione. La ricerca della perfezione ci fa fondare su noi stessi e non sul Signore (o sul timore di Dio come si esprime l’Ecclesiaste).
Anche la sfida del giusto che soffre, mentre l’empio se ne fa beffe, si relativizza perché riporta tutto nelle mani del Signore e non nei nostri ragionamenti. Certo in alcune situazioni non è per niente facile accettarlo, ma nella prospettiva della vita eterna donata da Dio e della sua Signoria ecco che la nostra angoscia si placa almeno un poco.
Ciò ovviamente, ripeto, non significa che non si debba cercare saggezza e di inseguire la giustizia, ma non si deve assolutizzare ciò che nella vita terrena, non è possibile.
L’unico che è santo è Dio stesso. E riconoscerne la sovranità e la santità è ciò che ci rendere timorati di Dio, ciò che ci rende coloro che si pongono alla sequela, si mettono a seguire Gesù Cristo, che in questo mondo difficile e a volte triste, sanno di non essere soli con le proprie forze o idee, ma sottoposti alla sovranità del Signore misericordioso. Amen